139 anni fa a Napoli uno Scugnizzo incontra don Bosco. Sarà il primo salesiano napoletano

AVEVO 10 ANNI, ERO ORFANO DI PADRE, SPESSO ACCOMPAGNAVO MIA MAMMA A MESSA IN UNA CHIESETTA DEL CENTRO DI NAPOLI… A VOLTE FACEVO ANCHE IL “CHIERICHETTO”

UN GIORNO AL POSTO DEL PARROCO MI RITROVAI UN PRETE TORINESE DI PASSAGGIO, UN CERTO DON BOSCO NON SAPEVO ANCORA CHE QUELL’UOMO SORRIDENTE E PATERNO AVREBBE CAMBIATO LA MIA VITA. DON BOSCO PARLO’ SUBITO CON MAMMA DOPO LA MESSA: “IL RAGAZZO E’ SVEGLIO, SA PREGARE, SI VEDE CHE E’ BUONO… PERCHE’ NON LO LASCIA A STUDIARE COI MIEI SALESIANI?”

NON ANDAI SUBITO, NON VOLEVO LASCIARE MAMMA DA SOLA MA QUANDO ANCHE LEI RAGGIUNSE IL PARADISO ANDAI A TORINO, TOCCAI CON MANO I MIRACOLI CHE IL SIGNORE FACEVA IN QUEL LUOGO DIVENTAI SALESIANO PER ESSERE COME DON BOSCO, PER SALVARE LE VITE DI TANTI GIOVANI DIVENTAI DON PEPPINO BRANCATI…

Dal “diario” di Peppino Brancati. Napoli 29-31 Marzo 1880

Il 25 luglio del 2017 i salesiani di Torre Annunziata inaugurano la Casa Famiglia per minori “Peppino Brancati” a guidarla un salesiano dello stesso quartiere di Peppino Brancati, don Luca De Muro. La stroria continua … per dare di più a chi la vita ha dato di meno.

Don Luca non è solo il coordinatore della Comunità “Peppino Brancati” ma è soprattutto il responsabile dei ragazzi che ne fanno parte. Come don Bosco li accoglie nella loro interezza, cogliendo in ognuno il lato “buono”, guidandoli nel percorso di crescita, in un momento particolare della loro vita, aiutando ognuno a trarre fuori il meglio che è già dentro di sé. Il suo spirito salesiano emerge soprattutto nel lato educativo, infatti egli con amore “paterno” se ne prende cura, ponendo attenzione ad ogni loro singola necessità e bisogno, compreso quello spirituale poiché, come dice don Bosco, bisogna educare ad essere “buoni cristiani ed onesti cittadini”.

Ne dà la testimonianza don Luca in persona in questa breve intervista in cui racconta la sua vocazione e di come l’amore per i giovani e il Signore, lo ha condotto alla vera gioia al servizio degli ultimi e dei più deboli.

Intervista a don Luca

  1. Come è nata la tua vocazione?

La mia vocazione è nata in età adolescenziale, lì dove sono cresciuto, nei tristemente famosi: “Quartieri Spagnoli”.

Come ogni adolescente ero alla ricerca di me stesso, alla ricerca di quel “qualcosa” che mi avrebbe fatto sentire bene, che mi avrebbe fatto sentire realizzato. Cercavo di colmare quel vuoto in vari modi: nella politica, negli affetti, nel divertimento… e alla fine ci riuscii in una parrocchia, quasi per caso (ora direi per “provvidenza”).

Iniziai a frequentare la parrocchia per stare insieme ad alcuni amici che si preparavano per ricevere la cresima, ma a dirla tutta, non ci credevo poi più di tanto. Venni coinvolto in un progetto che prendeva vita proprio in quegli anni, un “oratorio” per i ragazzi del quartiere, guidato da una ragazza, Mary, che molti chiamavano ancora Suor Mariarosa nonostante avesse abbandonato quella strada da qualche anno. Con lei iniziai a conoscere don Bosco, il suo sistema educativo, la sua voglia di salvare i giovani.

I cammini di formazione per gli animatori sfociarono per due estati consecutive in campi estivi nel primo campo si affrontarono dei temi molto forti, tra cui il progetto di vita. Questo campo mi mise in crisi, avevo pensato altre volte a quale fosse la mia “strada” ma quel mercoledì mattina, fuori ad una chiesetta, gli animatori del campo (due suore e un sacerdote) raccontarono delle loro “chiamate” e dei loro percorsi… tutti percorsi difficili, ricchi di rinunce e di sacrifici, un discorso che prima di allora non mi avrebbe per niente colpito, ma quella volta invece si, mi colpì e mi lasciò scosso, si accese qualcosa in me, compresi che quella grande passione e quel grande amore che cercavo da tempo era l’amore di Dio, che quel “qualcosa” che cercavo era invece un “Qualcuno”. L’impegno sociale per i ragazzi del mio quartiere legato al percorso di fede assunse un valore diverso, iniziavo a comprendere che ero “chiamato” a fare ciò.

Iniziai l’accompagnamento spirituale per capire tutto quello che mi accadeva e cercare il “filo rosso” che univa tutto il mio passato, tutte le mie esperienze, tutti i miei incontri. Don bosco aveva bussato al mio cuore, allora presi la decisione di andare concretamente a “bussare” alla porta dei Salesiani più vicini dicendo “io voglio diventare salesiano!”. Ovviamente mi presero per pazzo, ma mi accompagnarono a comprendere cosa il Signore mi chiedeva.

Dopo qualche tempo feci un’esperienza missionaria in Madagascar dove ricomposi gli ultimi pezzi del puzzle: i poveri, i giovani, e il Signore sarebbero stati la mia vita. Ed eccomi qui, sono un salesiano di don Bosco, e sono felice.  

  • Cosa ti ha spinto a far parte della Comunità “Peppino Brancati”?

Inizialmente sono stato incaricato, dai miei superiori, di occuparmi dell’oratorio e dell’economia della casa salesiana di Torre Annunziata, quando sono arrivato qui erano in atto gli ultimi preparativi per poter inaugurare la seconda comunità alloggio di Torre Annunziata, la Peppino Brancati.

L’idea di lavorare in una struttura del genere mi aveva sempre affascinato, chiesi allora al direttore, don Antonio, di poter essere inserito nei “turni” degli operatori, mi disse che ci avrebbe pensato. Dopo qualche giorno mi fece una controproposta che mi spiazzò: “e se la coordinassi tu la Peppino Brancati?” “Rino ti aiuterà”.

Accettai con gioia, e non mi sono mai pentito di averlo fatto.

  • Ti senti un po’ il “papà” dei ragazzi di cui ti prendi cura?

In casa famiglia devi entrare al 100% nella vita dei ragazzi, vivono con noi i momenti forse più difficili e delicati della loro vita. È necessario che trovino nella comunità una figura che li “guidi”, che faccia loro da padre o madre in quel momento. È un’esperienza che non si può vivere “part-time” in qualsiasi momento del giorno e della notte potrebbe essere necessario il tuo intervento, il tuo supporto, o semplicemente un tuo consiglio. Per fortuna l’equipe di educatori che lavora in comunità mi è di grande supporto sia professionale che affettivo, siamo una gran bella famiglia. 

  • Come si può educare, secondo te, a diventare “buoni cristiani e onesti cittadini”

Ho imparato da don Bosco che per attuare percorsi educativi profondi e solidi non si può tralasciare la fede, ma ho anche capito che le prediche funzionano quasi solo a bambini ed anziani, per i ragazzi l’unica chiave resta l’esempio. L’essere a stretto contatto con i ragazzi mi permette di testimoniare il Signore anche semplicemente con il mio essere religioso e un sacerdote. La familiarità che si istaura con i ragazzi, poi, mi permette di formarli anche dal punto di vista religioso. Lo spirito di famiglia permette anche ai ragazzi di fare delle domande di fede che non avrebbero mai fatto “al loro parroco” e porsi degli interrogativi che non si sarebbero mai posti nei loro contesti di appartenenza. Faccio mio uno degli obbiettivi di don Bosco «Restituirli alla famiglia, alla società, alla Chiesa bravi figli, onesti cittadini, buoni cristiani».